giovedì 22 ottobre 2015

Le voci invisibili


Pensano che non le senti, forse solo perché ormai sei dietro l'angolo, oppure sei passato davanti a loro da poco, nei tuoi lenti giri dell'ospedale e ora dai loro di spalle.

"Povero putél..", "Quanto el me fa pena, pover fiól...", "Vardilo come se trassina, povvero...". 
Sedute sulle loro carrozzine, parcheggiate nell'atrio, davanti alla vetrata che da' sul cortile. Normalmente chiacchierano, raramente della stessa cosa. Talvolta sono distratte da quello che vedono dalla finestra, o discutono del tempo.
In ogni momento può arrivare una distrazione, qualcosa che focalizza i loro commenti. A volte é l'infermiere che fa il giro delle medicine, e talvolta invece questa distrazione sei tu.
Non puoi farci nulla, le senti e basta. Se nessuno sta gridando in quel preciso momento, c'è solo il silenzio, e i bisbigli sottovoce li senti comunque, anche se non ascoltavi.
"Te pensi de star mal, e poi te viodi chil sta pezo de ti...", "Cosí zovine, poverino...", "Pover'omo..."
A dire il vero non bisbigliano. Parlano e basta, convinte che da 10 metri non le senti, e allo stesso modo se rivolgi loro la schiena. Apprezzi che ti diano del giovane, che ti chiamino ragazzo, con i tuoi 51 anni e i capelli sale e pepe. 
Apprezzi di meno che ti compatiscano. Ma d'altronde ti muovi con la stampella, più spesso col deambulatore, talvolta vai spedito e altre ti trascini, e i "buongiorno" che dici ogni mattina vengono fuori ormai impastati, in una voce estranea e quasi incomprensibile che non riconosci come tua.

Chiamatele come volete: comari, vecie, babe de piasa, non é importante una definizione. É un'ospedale, é naturale accada. Non c'é cattiveria, ma solo ingenua sincerità, oltre ad una buona dose di "ciacola", immancabile in questa parte dimenticata d'Italia. Se fossero solo un filo piú discrete lo gradiresti: stai cercando di essere ottimista, di vedere il bicchiere pieno, di uscire dal tunnel, dalla palude di melma, in cui ti sei sentito trascinato in questi ultimi mesi, tuo malgrado. E tutte quelle definizioni che senti bisbigliare ti ricordano perché sei qui, vogliono trattenerti, come tu fossi una cosa loro, esclusiva e privata.
"Non riesso a vardár...", 
Ma insisti, e sopporti. In stanza leggi un libro, ascolti un podcast, e cerchi di tenere la mente impegnata. É impegnativo cercare di non cadere nello sconforto; nel bianco silenzio della stanza puoi esaminare la tua situazione, pensare a tutte le scelte che hai fatto negli ultimi 10 anni, tutte sbagliate tuo malgrado, perché non hai colpe se sei finito in questo vicolo cieco. Ovvio che finisci anche ripensare alle tante cose rimandate in passato, che ora non sai se potrai mai fare. Sei moderatamente incavolato, insomma, e mi dicono essere normale. Anzi, potrei esserlo di piú.
Per cui, care signore, alla fine preferisco che continuate a ciacolare, discutere, cantare, e a compatire quel povero " ragazzo": un po' gli gireranno le palle, è vero, peró lo aiutate a distrarsi.
"Che costanza ch'el ga!", "Vai, ch'el garirà presto!", "Fal ben a caminàr, se il se arende se finía! Brau!"
E poi in fondo, vi vuole bene. Perché spesso fate anche il tifo.
E un po' di sostegno del pubblico é sempre gradito, nella grande commedia della vita. Non ne vorremmo un po' tutti noi?